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    Quel ragazzo di Villafiorito che conosceva il suo destino

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    Oggi, 30 ottobre, uno dei più grandi calciatori di sempre (forse il più grande), Diego Armando Maradona compie mezzo secolo di un’avventurosa vita. Giusto una settimana fa, festeggiava il compleanno il “rivale” di sempre tra gli appassionati, Pelè, che ha toccato i 70 anni. La disputa su chi sia il migliore dei due è storica ormai, ma forse sbilanciandoci un po’, Maradona ha trascinato praticamente da solo l’Argentina alla conquista del Mondiale dell’86; il brasiliano invece (pur se il calcio era diverso e fermo restando la sua immensa classe), ha giocato in seleçao con altri fenomeni come Garrincha e Vavà prima e Carlos Alberto, Rivelino, Jairzinho poi, tra gli altri. Vogliamo omaggiare il giocatore argentino non entrando nel merito delle sue vicissitudini personali, ma per quello che ha mostrato in campo. Anche se, a dire il vero, alcuni tra i campioni di questo sport cresciuti nella miseria e nella povertà, spesso hanno avuto incontri poco felici e un po’si sono persi, proprio nell’ingenuità di aver avuto troppo ed in fretta. Quel ragazzo di Villafiorito, uno dei quartieri più malmessi di Buenos Aires, in un’intervista ancora in tenera età diceva che il suo sogno più grande era vestire la maglia albiceleste e vincere il Campionato del Mondo: il suo immenso talento gli ha permesso di realizzarlo. L’esordio nel suo Paese a dieci giorni dal compiere 16 anni nell’Argentinos Juniors, poi Boca, Barcellona e Napoli. La città partenopea gli riserverà fin dal primo istante un amore ed un calore viscerale: il 5 luglio 1984, al San Paolo, 60 mila persone accorsero allo stadio per vedere un ragazzo fare qualche palleggio al centro del campo. Maradona e Napoli hanno dato e ricevuto vicendevolmente, nella stessa misura. Il Pibe de oro (il ragazzo d’oro), ha fatto assaporare la gioia e il gusto della vittoria ad una intera città che con i due scudetti, una coppa Uefa, una coppa Italia e una supercoppa italiana poteva finalmente essere in cima all’Italia ed urlare “noi ci siamo”, scrollandosi di dosso le etichette di delinquenza, sporcizia e malaffare; una città che con il calcio ed attraverso il calcio cercava di riemergere dai bassifondi, sognava di sentirsi migliore e reagire alle sofferenze della vita, tanto da cantare “Maradona è megl ‘e Pelè” e scrivere dopo la conquista del primo scudetto sul muro di cinta del cimitero “nun sapite che vi siete persi”, festeggiando tra il sacro e il profano uno storico evento. Un uomo sempre contro il potere, insofferente alle regole; eppure ben voluto da tutti, compagni di squadra ed allenatori, i quali ripetono ad ogni occasione che è un ragazzo d’oro. Ha dovuto ingoiare bocconi amari, per via di quella Fifa che è stato uno dei suoi bersagli preferiti. Ad Italia’90 in lacrime per la sconfitta in finale contro i tedeschi per via di un rigore inesistente (e ci sono molti dubbi su una manovra “politica” della Germania); quattro anni dopo negli Stati Uniti torna da par suo, ma alla seconda partita viene squalificato per doping, altro complotto secondo il Pibe ai suoi danni. E’ stato l’autore del gol del secolo, in un Argentina-Inghilterra che si può considerare come la metafora della sua vita: prima il gol di mano, poi quel fantastico slalom tra i difensori inglesi. Sregolatezza prima, genio poi: furbizia e magia; questo era Maradona, prendere o lasciare. E quando quest’estate ai Mondiali in Sudafrica in abito elegante seguiva da bordocampo la sua squadra, ti accorgevi che quando la sfera finiva presso la panchina, lui era lì a prenderla, come se volesse entrare a dare una mano ai suoi ragazzi, nonostante non siano diventati poi campioni. Il suo sinistro magico ha fatto epoca, milioni di persone in un sondaggio commissionato dalla Fifa dieci anni fa l’hanno premiato come miglior calciatore del secolo, mentre la giuria dei tecnici ha assegnato il titolo a Pelè, in questo loro continuo rincorrersi. Tanti auguri di cuore Diego, eterno ragazzo innamorato del pallone.

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