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    Cerignola, “Mi Cercarono l’Anima”: la storia di Cucchi raccontata dall’autore

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    La storia dell’omicidio di Stefano Cucchi arriva anche a Cerignola. A raccontarla, lo scorso venerdì, presso la Bottega del Mondo “Stesso Sole”, incalzato dalle domande di Pietro Fragasso, presidente della Cooperativa “Pietra Di Scarto”, è Duccio Facchini, giornalista del mensile milanese “Altraeconomia”, autore del libro “Mi cercarono l’anima”, edito dalla stessa testata nel novembre scorso. Con la Prefazione di Luigi Manconi e Valentina Calderone, il libro riporta la ricostruzione puntigliosa della vicenda Cucchi: dalla battaglia per la verità della famiglia alle responsabilità dello Stato. “Presunta morte naturale” è l’epitaffio di Stefano Cucchi, il 31enne geometra romano con problemi di tossicodipendenza, morto a Roma il 22 ottobre 2009 all’ospedale-carcere “Sandro Pertini”. Una settimana prima era stato trovato in possesso di 21 grammi di hashish e antiepilettici ed arrestato per spaccio. Il giorno dopo processato per direttissima. Sette giorni al Regina Coeli nelle mani dello Stato, dai carabinieri alla polizia penitenziaria, dai magistrati ai medici di carcere e ospedale. La famiglia ebbe notizie di Cucchi solo quando un ufficiale giudiziario si recò presso la loro abitazione per notificare l’autorizzazione all’autopsia. I genitori, Giovanni Cucchi e Rita Calore, lo vedranno dietro una teca di vetro: sul suo corpo, inequivocabili segni di percosse. Ma lo Stato, dopo averla alzata, nasconde la mano, negando la propria responsabilità. Ne è prova la sentenza di primo grado del processo. Il 5 giugno 2013 la III Corte d’Assise condanna quattro medici dell’ospedale Sandro Pertini a un anno e quattro mesi e il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa), un medico a 8 mesi per falso ideologico, mentre assolve sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi. Il pestaggio, infatti, è riconosciuto ma resta “orfano”.

    “Un’inchiesta dalla parte dei vinti-dichiara Duccio Facchini- che, minuto per minuto, attore per attore, recupera tutti i tasselli mancanti di questa storia e li riporta alla luce”. Recupera le testimonianze accantonate, come quella di un detenuto Ghanese che, durante l’incidente probatorio, dichiarò di aver visto Cucchi essere picchiato con violenza dagli agenti, per poi non essere considerato attendibile così come le detenute Annamaria Costanzo e Silvana Cappuccio. Questo libro recupera le ragioni delle parti civili e depura i fatti da ogni omissione e da ogni errore, come quelli commessi dai Carabinieri, quando al momento dell’arresto di Cucchi riportarono sul verbale che si trattava di un “albanese senza fissa dimora”, sebbene Cucchi avesse con sé la Patente, o quando gli affidarono un Avvocato d’ufficio, sebbene ne avesse nominato uno di fiducia, o quando non seppero spiegare perché per il trasporto del detenuto all’Ospedale Fatebenefratelli, a solo 600 metri dal Regina Coeli, impiegarono 4 ore, per poi asserire che Cucchi avrebbe rifiutato il ricovero. Ma non solo. Il libro di Duccio Facchini affronta anche temi collaterali quali l’“esercizio esclusivo della forza” da parte dello Stato, il reato di tortura, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, lo stato delle carceri italiane condannate dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013.

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    La storia di Stefano Cucchi, così come quella di Federico Aldrovandi, è un fondo senza fine. Non è bastata la morte di un fratello pestato e abbandonato, non è bastata una sentenza di primo grado che, condannando i medici ed assolvendo gli agenti penitenziari, ha dell’incredibile. Non sono bastate le parole di Carlo Giovanardi, che dichiarò che Stefano Cucchi era morto perché anoressico e tossicodipendente, accusando la famiglia di voler strumentalizzare la vicenda a fini politici. Ora Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, si trova a dover rispondere dell’accusa di diffamazione e viene indagata dalla Procura. A denunciarla, nel giugno dello scorso anno, è il Coisp di Franco Maccari, un sindacato di polizia, quello stesso che pensò bene di manifestare a favore dei poliziotti che hanno ucciso Federico Aldrovandi proprio sotto gli uffici del Comune di Ferrara presso cui lavora la mamma del ragazzo, Patrizia Moretti. Lo stesso che ha denunciato per diffamazione i parenti di altre vittime uccise da criminali in divisa, come Domenica Ferrulli e Lucia Uva.

    “Al danno la beffa-spiega Facchini- ma la lotta della famiglia Cucchi continua e presto il libro ‘Mi cercarono l’anima’ potrebbe essere acquisito come elemento probatorio in appello. Come ha riconosciuto lo stesso collegio difensivo dei Cucchi, il cui collegio peritale è, tra l’altro, a Foggia, guidato dal Prof. Fineschi, dal libro emergono elementi nuovi. E se la Dott.ssa Beatrice Ferragalli, Radiologa dell’Università di Chieti-Pescara, la cui perizia basata sui soli referti post-mortem di Stefano Cucchi è stata fondamentale nella sentenza di primo grado, riuscisse ad esaminare i referti antecedenti alla morte e a constatare come la frattura della terza e della quinta vertebra lombare del Cucchi non siano posteriori al taglio settorio, compiuto durante l’autopsia, ma precedenti, questa sarebbe la prova del pestaggio subito e della colpevolezza dei tre agenti di polizia penitenziaria che uccisero Stefano Cucchi”. Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Giulio Comuzzi, Manuel Eliantonio, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino, Stefano Consiglio, Riccardo Boccaletti. Sale il numero dei ragazzi morti per mano dello Stato. Sale l’indignazione e, intanto, nel Bel-Mal Paese, per sperare di ottenere giustizia bisogna affidarsi al lavoro d’inchiesta di un “giornalista-cittadino”, come il giovane Facchini.

    1 COMMENT

    1. Le storie di malagiustizia capitate ai ragazzi di cui sopra e alle famiglie degli stessi sono una triste verità Italiana, con la quale non si vuole buttare fango su tutti gli uomini dello stato ma che è utile ricordare per evidenziare, come è capitato, che uomini dello stato che hanno sbagliato siano stati protetti e non consegnati alla giustizia come invece capiterebbe ad un normale cittadino. La legge in questi casi non è stata uguale per tutti e raccontare queste storie serve a tenere accesa la luce per far si’ che non si ricada in questi errori. E’ anche un modo per continuare a stare vicino alle famiglie di chi ha subito tali ingiustizie e mantenere alto il livello di attenzione sul funzionamento della giustizia.

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