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    “Mafia, Antimafia in Capitanata” a 20 anni dall’Operazione Cartagine

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    Sono passati poco più di 20 anni dalla storica operazione Cartagine: anni di omicidi, processi, condanne, vittime, testimoni di giustizia. Anni che vedono nei beni confiscati, come “Laboratorio di legalità Francesco Marcone”, in contrada Toro, e “Terra Aut”, in contrada Scarafone, gestiti da due cooperative sociali (“Pietra di Scarto” e “Altereco”), la testimonianza concreta della vittoria dello Stato sulla mafia. A 20 anni di distanza, però, ci si chiede come siano cambiate la mafia e l’antimafia, due facce della stessa medaglia, in questo fazzoletto di terra arso dal sole: la Capitanata. Il Presidio cittadino di Libera, insieme all’Arci, lo SPI-CGIL e FLAI-CGIL, ha pensato, così, di promuovere, in occasione del secondo campo di studio e di volontariato che vede protagonisti, in questi giorni, 18 ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia sui beni confiscati alla mafia cerignolana, un incontro pubblico sul tema: “Mafia, Antimafia in Capitanata. Con la forza del sole la legalità scende in campo”. Ad approfondire il tema, in Piazza Matteotti, Franco Persiano – Segretario Gen. SPI CGIL Foggia -, Alessandro Cobianchi – Referente Legalità Arci – e Dora Giannatempo – Responsabile Area Formazione di Libera Cerignola, insieme a chi, ieri, Michele Emiliano, attuale Assessore alla Legalità del Comune di San Severo, ed oggi, il Gip di Trani Francesco Messina, si trova a lottare contro la mafia tutti i giorni. A moderare la discussione, Daniela Marcone, Referente del Coordinamento provinciale di Libera e figlia di Francesco Marcone, il Direttore dell’Ufficio del Registro assassinato dalla “Società” foggiana nel 1995.

    Ad aprire l’incontro, un viaggio nel regno della mafia cerignolana di ieri, la stessa con cui Salvatore Annacondia, boss di Trani e affiliato a Cosa Nostra, con 130 omicidi sulle spalle, preferiva «non avere niente a che fare perché erano troppo violenti». L’eccidio di tre giovanissimi, avvenuto il 12 marzo del 1992, è solo uno squarcio di una stagione feroce, che ha fatto contare 67 morti in sei anni, fino al 1993, con l’inizio del processo Cartagine. L’Operazione Cartagine, condotta dalla Dia, sgominò il sodalizio criminale formato dal clan dei Piarulli a Milano e i Ferraro-Caputo a Cerignola. 83 gli ordini di custodia cautelare. Tra i reati contestati, associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, traffico di stupefacenti e 40 omicidi. L’operazione si avvalse della collaborazione di sette pentiti, tra i quali il boss della malavita di Trani, Salvatore Annacondia. Su 53 condannati, una trentina sono stati, però, rimessi in libertà, in seguito a perizie che ne avrebbero attestato disturbi psichici. Agli inizi degli Anni Ottanta, in quel paesone di braccianti, con alle spalle gloriose tradizioni sindacali, arriva, nei traffici della criminalità, anche la droga. E, con la droga, i nuovi ‘uomini di rispetto’, moderni e spietati. “La mafia cerignolana – spiega Michele Emiliano, all’epoca sostituto procuratore nel maxi processo che seguì l’Operazione Cartagine, insieme a Gianrico Carofiglio, titolare del processo – non praticava affiliazioni, non prevedeva i gradi tipici della ‘ndrangheta e della sacra corona unita».

    “I battesimi sono pagliacciate. Sono buoni per farsi scoprire”, disse il primo pentito di quella mafia. E spiegò che la vera affiliazione avveniva con l’atto criminale, l’omicidio. In pochi anni, di omicidi, ne vennero compiuti più di 50. Finchè la banda vincente dei fratelli Piarulli e di Giovanni Ferraro non ebbe il controllo assoluto dell’intera città. Centinaia e centinaia di estorsioni, tutto il mondo commerciale e imprenditoriale taglieggiato, traffico imponente di hashish, cocaina ed eroina, sequestri lampo. “L’altra peculiarità della mafia cerignolana – racconta ancora Emiliano- è che si serviva di una microcriminalità aggressiva. Centinaia di manovali al seguito dei capiclan. Una mafia dall’aggressività animalesca ma con una visione imprenditoriale che aveva anche una depandance a Milano in cui faceva affari col traffico di eroina e cocaina». Si arrivò al punto che i rappresentanti di commercio non si recavano più a Cerignola. Il controllo della città, da parte dei mafiosi, era capillare. Una metastasi che si estendeva fino ad alcuni professionisti pugliesi. Tra questi, un noto avvocato di Cerignola che avrebbe fornito un alibi falso ad un accusato di omicidio. (A precisazione di quanto rappresentato nell’articolo “Mafia, Antimafia in Capitanata a 20 anni dall’Operazione Cartagena” viene a precisarsi che le accuse mosse nei confronti dell’Avvocato coinvolto nella vicenda, sono risultate successivamente infondate, atteso che lo stesso sia stato assolto con ampia formula liberatoria, per non aver commesso il fatto, dalla Corte di Appello di Bari, pronuncia questa confermata dalla Corte Suprema di Cassazione, divenuta irrevocabile il 14/04/2011). A raccontarci un altro episodio clamoroso di quegli anni è proprio Emiliano. «Il pentito Salvatore Annacondia – ricorda l’ex Magistrato che condusse anche l’indagine sull’uccisione del giovane Ciannamea – rivelò ai magistrati che un noto boss era in procinto di gambizzare un professionista barese. Il ferimento avvenne qualche giorno dopo. La persona gambizzata era un architetto senza precedenti penali. Dopo faticose indagini gli investigatori scoprirono che l’architetto ferito era l’amante della moglie di un noto oculista di Bari. Lo stesso che aveva più volte certificato – a discarico del boss – una fortissima miopia che lo rendeva incapace delle imprese di cui era accusato. Tanto che il killer si era guadagnato il soprannome di “Cecato”».         

    In quegli anni ‘torridi’, nel far-west chiamato ‘Cerignola’, a quella di Emiliano e Carofiglio, si incrociava la storia di un altro uomo di giustizia, Francesco Messina, oggi Gip al Tribunale di Trani, dal ’92 al ’96 Pretore civile e penale nel centro ofantino. «In quegli anni -ricorda Messina – mi sono interfacciato su una realtà criminale spietata, con una morfologia tutta sua, in cui il giustizialismo dei boss sembrava correre più veloce della giustizia. Eppure, con enormi sacrifici, grazie all’intelligenza dello Stato, quel sistema è stato scalfito e con operazione Cartagine gli esponenti apicali di quella cupola sono stati condannati ed estromessi definitivamente dal consesso sociale. Ma da quel giugno del ’94 ad oggi, cosa è cambiato nella mafia e nell’antimafia di Capitanata? La Capitanata continua ad essere una frontiera difficile. Un condensato di contraddizioni. Al colore dei campi s’oppone il sudore di migranti senza diritti, vittime silenziose del caporalato; alla rustica bellezza di borghi di mare, s’oppone il proliferare, spesso, incontrollato, d’interessi sul mondo del mattone, proprio come al mantra della green economy, un’eterna, irrisolta emergenza rifiuti. Ma spostarsi per la provincia di Foggia vuol dire anche raccontare ottime pratiche di costruzione di democrazia, partecipazione, legalità. Come quelle di Pietra di Scarto e Altereco. «Per fortuna, a Cerignola, oltre alla criminalità c’è anche l’altra faccia della medaglia, meno conosciuta e raccontata. Una faccia fatta di tante facce, di tante braccia, di tanti piedi. A crescere, oltre al malaffare, è anche la consapevolezza, la responsabilità, la speranza, l’impegno. Perchè speranza vuol dire impegnarsi in prima persona, insieme agli altri, per costruire una società più giusta. Per voltare la ‘medaglia’ occorre portare nelle scuole percorsi educati in tema di educazione alla cittadinanza e di contrasto alle mafie».

    «Proviamo a fare da pontieri tra associazioni e realtà del territorio- dichiara Alessandro Cobianchi-. Però, mentre i mafiosi si affiliano tra di loro per fare affari, noi siamo capaci di litigare più di loro – confessa -. La grande differenza tra l’antimafia di ieri e quella di oggi è che ieri c’era scarsa conoscenza del fenomeno mafioso, non c’era un’informazione pluralista e non c’erano gli strumenti di lotta. Così ci siamo inventati la Carovana antimafie, la raccolta firme che ha portato alla nascita di Libera, i campi di volontariato e di studio sui beni confiscati e altro ancora. Oggi, invece – dice Cobianchi – il rischio è che l’Antimafia mastichi sempre le stesse parole e che faccia sempre le stesse cose. Ho il timore che per accendere l’interruttore dell’antimafia stiamo aspettando un altro tragico evento, come il telecomando che ordì le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. La campagna ‘Io riattivo il lavoro’ vuole anticipare i tempi. Dobbiamo fare comunità ed essere ‘uno in più di loro’. La mutevolezza del mondo criminale chiede all’antimafia lucidità, competenza e serietà. Se i boss cercano tifosi, i giudici ci chiedono di essere giocatori nella partita contro l’illegalità». «Mi fa piacere respirare una boccata d’ossigeno qui a Cerignola – aggiunge Emiliano – ma in Capitanata l’aria è pesante. Solo ieri alcuni colpi di pistola sono stati esplosi contro il Sindaco di Torremaggiore, Costanzo Di Iorio, mentre era alla guida della propria auto. Anche 30 anni fa si parlava ‘solo’ di microcriminalità disorganizzata. Occorre costruire un sistema immunitario forte e non ricorrere solo agli antibiotici. E per fare questo, oltre all’antimafia giudiziaria, occorre quella sociale”. «Bisogna arrestare la circolabilità del male che nella sua banalità impedisce la radicalità del bene – gli fa eco il Giudice Messina -. Non si può delegare solo alle forze dell’Ordine e alle Istituzioni la gestione di una realtà che ci appartiene. Dobbiamo essere, come diceva don Milani, ‘cittadini sovrani’. Fare strada agli altri e non farci strada». E a dirla con le parole di don Ciotti, “basta commuoversi. Bisogna muoversi”.

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