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    Assalto al caveau: «ecco come andò la rapina…»

    I RETROSCENA DELL’INDAGINE «KELEOS» DELLA DDA DI CATANZARO CONTRO UNA BANDA COMPOSTA DA CERIGNOLANI E CALABRESI PER IL COLPO DA 8 MILIONI DI EURO

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    «Sono a conoscenza dell’episodio legato alla rapina al caveau della Sicurtransport alla quale mio marito Giovanni Passalacqua ha partecipato quale basista e coorganizzatore». Era il 21 marzo quando Annamaria Cerminara si presentò davanti agli investigatori della squadra mobile di Catanzaro per parlare della rapina da oltre 8 milioni messa a segno la sera del 4 dicembre del 2016 nel caveau dell’istituto di vigilanza del centro calabrese. L’indagine denominata «Keleos», coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e condotta dalle squadre mobile dello stesso centro e di Foggia e dai colleghi dello «Sco», servizio centrale operativo della Polizia, è sfociata 48 ore nell’emissione di 9 decreti di fermo nei confronti di calabresi e cerignolani: 7 le persone fermate (tra cui il cerignolano Mario Mancino di 42 anni), mentre altre due non sono state ancora rintracciate e sottoposte a fermo: tra questi c’è anche un secondo cerignolano ritenuto il capo della banda. Complessivamente sono 12 gli indagati dell’inchiesta (4 i cerignolani) accusati a vario titolo di concorso in rapina aggravata, detenzione, porto illegale di armi anche da guerra e ricettazione, con l’aggravante della mafiosità per aver agevolato la ‘ndrangheta: parte del bottino fu versata a cosche calabresi. La Dda catanzarese ipotizza che il colpo del dicembre 2016 sia stato organizzato da elementi locali e attuati da «professionisti» della rapina provenienti da Cerignola.

    L’accusa poggia su intercettazioni telefoniche e ambientali, analisi di tabulati telefonici e celle, sequestri di una parte del bottino e sulle dichiarazioni di Annamaria Cerminara, compagna di Giovanni Passalacqua, rom residente nel centro calabrese, indicato quale l’ideatore del colpo che individuò poi nell’organizzazione cerignolana che sarebbe capeggiata dall’indagato non ancora rintracciato, i complici per mettere a segno l’assalto. La pentita scappò dal marito che l’accusava di aver rubato parte del bottino e fu grazie anche alle parole della collaboratrice di giustizia – dice l’accusa – che gli inquirenti trovano conferme ai loro sospetti: e cioè che a svaligiare il caveau dell’istituto di vigilanza «Sicurtransport» fosse stata una banda formata da specialisti cerignolani e basisti calabresi. Il tutto con il benestare dei clan che controllano il territorio catanzarese che hanno ricevuto in segno di rispetto una quota del bottino. Le indagini sono durate un anno e mezzo necessario per ricostruire tutte le fasi della rapina con il bottino più ricco mai eseguita in Calabria. Oltre 8 milioni di euro – ma nel caveau ce n’erano ben 100 – portati via con un blitz paramilitare durato in tutto 11 minuti, con il ricorso ad armi pesanti tra le quali i kalashnikov, strumentazione tecnologica, un potente escavatore per sfondare il muro del caveau e 11 auto incendiate per bloccare le vie d’accesso alla polizia. Un colpo reso possibile – sostiene l’accusa – da una talpa, Massimiliano Tassone, capo area regionale della Sicurtransport pure fermato nel blitz «Keleos» e che avrebbe fornito ai presunti complici non solo tutti i dettagli della struttura ma anche dei video ripresi con una telecamera nascosta in una penna. Gli investigatori e gli inquirenti ritengono importante anche il ruolo di alcuni imprenditori: è il caso del calabrese Nilo Urso, pure destinatario di uno dei 9 decreti di fermo firmati dalla Dda: su indicazione dei rapinatori avrebbe aspettato un mese prima di denunciare il furto di un escavatore da 150mila euro poi utilizzato per sfondare il muro del capannone. Tra i fermati c’è anche Cesare Ammirato di Catanzaro che avrebbe fornito il proprio capannone per trasformarlo una sorta di quartier generale della banda.

    La rapina – ha detto nella conferenza stampa di venerdì mattina a Catanzaro il capo della squadra mobile locale Nino De Santis – sarebbe dovuto avvenire ad agosto. Fu rinviato per una segnalazione anonima giunta alla questura di Reggio Calabria che fece intensificare i controlli della polizia. A questa vicenda – scrive l’agenzia Ansa da Catanzaro – potrebbe essere legato anche l’omicidio di Vito De Biase ucciso nel gennaio scorso ad Andria: l’uomo sarebbe stato estromesso dal colpo e secondo quanto riferito dalla collaboratrice di giustizia proprio su di lui potrebbero essersi concentrati i sospetti sulla soffiata, ipotesi chiaramente tutta da verificare. La rapina fu poi effettuata il 4 dicembre del 2016, la notte del referendum costituzionale. «Un assalto paramilitare» lo ha definito il questore di Catanzaro Amalia Di Ruocco, mentre il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri ha spiegato di essere rimasto «colpito da quell’episodio tanto violento e cruento. «Non era affatto facile» ha aggiunto Gratteri «eppure è stata realizzata un’indagine da studiare nelle scuole di polizia giudiziaria che ha individuato gli specialisti che già avevano fatto colpi simili in altre parti d’Italia».

    TUTTO IN DODICI MINUTI Dodici minuti: tanto durò la sera del 4 dicembre 2016 l’assalto al caveau dell’istituto di vigilanza «Sicurtransport» in località Profeta nel comune di Caraffa vicino Catanzaro, che fruttò 8 milioni di euro. Dopo un anno e mezzo di indagini la Dda ha emesso 9 decreti di fermo per rapina, armi e ricettazione aggravati dalla mafiosità, puntando il dito anche contro alcuni cerignolani (uno fermato, uno da rintracciare, 2 indagati a piede libero): una banda cerignolana avrebbe infatti compiuto l’assalto organizzato da complici calabresi. Fu un’azione condotta in stile paramilitare da almeno 15 persone armate anche con mitra Kalashnikov e munite di strumenti tecnologici, per quanto ricostruito da Dda di Catanzaro e squadre mobili locali e di Foggia. La banda arrivò nella sede della «Sicurtransport» con un camion con carrello, per il trasporto di una grossa ruspa con martello pneumatico e braccio di 3 metri. Prima di entrare in azione il commando bloccò tutte le strade di accesso con auto rubate messe di traverso e incendiate; poi staccò una centralina inserendo un dispositivo per disturbare i ponti radio e isolare la zona telefonicamente: solo allora entrò in azione la ruspa che sfondò il muro in cemento armato rinforzato con barre di acciaio del caveau. Gli abitanti della zona udirono il botto, si barricarono in casa allertarono le forze dell’ordine. Proprio l’intervento della polizia costrinse la banda a lasciare altri 40 milioni depositati nel caveau.

    Le modalità della rapina a Catanzaro sono molto simili a quelle del colpo analogo tentato a Foggia la notte sul 25 giugno del 2014 quando un commando mise a ferro e fuoco il capoluogo sfondando la parete dell’istituto di vigilanza «Np service» al Villaggio artigiani ma senza riuscire a prelevare la cassaforte con 14 milioni di euro perché nonostante gli sbarramenti una «volante» riuscì a raggiungere la sede dell’istituto, ingaggiò un conflitto a fuoco con i banditi e li costrinse a ritirarsi a mani vuote: in 9 furono poi arrestati/denunciati, incriminati e assolti (tranne uno con una posizione marginale) nel processo di primo grado davanti al gup di Foggia.

    tratto da La Gazzetta del Mezzogiorno

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