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    Facce da crisi, facce da resistenza: operai in lotta avvistati a Cerignola

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    E’ una faccia della crisi, Giovanni Barozzino. Sul suo volto, però, nessun segno di rassegnazione. Tutt’altro. Gli occhi vispi ed il tono di voce sereno e deciso allo stesso tempo stanno a dimostrare due cose: la prima è che la crisi ti può emarginare, fiaccare, spezzare le reni, ma se decidi di resistere la dignità riesci a portarla in salvo; la seconda è che gli operai in questo Paese esistono (forse a mancare è quella che una volta si chiamava “coscienza di classe”). Giovanni è un operaio della Fiat Sata di Melfi e delegato Fiom-Cgil. A Cerignola ci viene in un freddo e sonnecchioso pomeriggio di gennaio (ieri 5 gennaio) a margine di festività natalizie che ormai hanno ben poco da dire. Il merito di portarlo nei locali di ExOpera è del Laboratorio urbano ResUrb, piccolo ma vivace granello di sabbia che da un po’ di tempo cerca di inceppare, per farla ripartire con nuove logiche e nuovi ritmi, la catena di montaggio fatta di abitudini e piccolezze che ormai attanaglia la nostra Cerignola. “Operai del Sud: il ricatto della crisi” è il nome dell’iniziativa che ha visto come protagonisti anche Bruno Federico, regista del documentario proiettato nella sala Nucci Ladogana “107 secondi-Operai del Sud” e Luigi Lorusso, scrittore ed editore. Pubblico ai minimi termini, magari anche perchè le storie e le ingiustizie partorite (o abortite) dalla crisi economica chiamerebbero in causa resonsabilità che nessuno ha voglia di assumersi. «Qua il sindacato non si fa più vedere – esordisce Vincenzo Colucci del ResUrb – eppure sono stati invitati. Quando sanno che l’iniziativa non è una passerella per loro preferiscono non partecipare». Ieri, invece, l’importante era ascoltare. La storia di Giovanni è semplice e allo stesso tempo assurda: nel luglio del 2010, assieme ad altri due colleghi (Antonio Lamorte e Marco Pignatelli) viene licenziato con l’accusa di aver sabotato un carrello robotizzato durante uno sciopero. Un mese dopo il giudice del lavoro riconosce come “antisindacale” il comportamento di Fiat, ordinando la contestuale reintegrazione sul posto del lavoro dei tre operai. Al rientro ad aspettarli c’era la saletta sindacale: lontani dalla produzione i tre vengono confinati ai margini del settore produttivo. Il rischio contagio per quel virus tanto odiato nelle fabbriche italiane e chiamato “ribellione” impone l’isolamento coatto. La Fiat nel frattempo fa ricorso ed una seconda sentenza del giudice del lavoro rende nullo il reintegro di Giovanni & co, che da quel giorno si ritrovano senza lavoro e senza uno stipendio. La battaglia legale va avanti però, con la convinzione che la forza della verità non possa che stare dalla parte giusta: “Scioperavamo perchè 1700 lavoratori erano stati appena messi in cassa integrazione – dichiara Barozzino – e allo stesso tempo, paradossalmente, l’azienda ci chiedeva di produrre 150 autovetture in più. Chiedemmo un tavolo di concertazione che ci fu negato. Durante lo sciopero io non ho sabotato alcun carrello. Erano distanti da me almeno 200 metri. Ci sono 60 testimonianze su questa circostanza oltre ad un documento firmato da tutte le Rsu. La verità è che noi, in quanto delegati Fiom, siamo stati usati come capri espiatori. La logica, è brutto dirlo, è stata quella del ‘colpirne uno per educarne cento’“. E se gli chiedi come fare ad uscirne Giovanni non ha dubbi: «Guardare al passato non ha più senso per me – dichiara a Lanotiziaweb -. Grandi partiti che rappresentino le istanze dei lavoratori non ci sono più. L’unica alternativa è quella di intrecciare le esperienze di lotta, partendo dal presupposto che operai, migranti, studenti e precari si troveranno tutti schiacciati dallo stesso giogo, che oggi, peraltro, prende le sembianze della manovra Monti». Voci che avrebbero bisogno di ben altri megafoni. Partiti e mass media hanno, però, ben altre preoccupazioni. Per farsi sentire Giovanni, Antonio e Marco sono stati costretti a salire sulla Porta Venosina, una delle sei porte cittadine incastonate nelle mura che cingono la città di Melfi. Strano paese l’Italia: per farsi sentire bisogna salire su qualcosa. Come fecero i sei immigrati che nel novembre del 2010 salirono su una gru di Brescia per chiedere di essere regolarizzati dopo anni di lavoro prestato in Italia. Sale lo spread, è vero. Ma salgono anche i migranti e gli operai. Da lassù, l’assalto al cielo, forse, è un po’ più facile.

    3 COMMENTS

    1. ahahaha come al solito, a riguardo di tematiche serie e importantissime, il contesto cerignolano non sforna nemmeno un minimo di interesse per commentare questo articoli. Povrn a noj!!

    2. è molto dolorosa la vicenda dei tre operai fiat di melfi. apre ad innumerevoli riflessioni sul periodo (lungo ormai) e sul modello di società in cui stiamo vivendo. da manager che si affermano attraverso una gestione dura e padronale dell’azienda, piuttosto che innovativa tecnologicamente e socialmente; a governi (nazionali e locali) lontanissimi dai dolori e dalle terrificanti difficoltà di vivere di migliaia di persone e famiglie, inutile nasconderlo ormai senza speranza. è anche vero però che chi ha un lavoro, nel pubblico o nel privato, deve obbligarsi ad una riflessione su quei comportamenti che spesso cadono nel campo dell’ abuso di tutele contrattuali, leggittime, ma rispetto alle quali spesso se ne fa un uso distorto ed esagerato. il precariato nasce anche da questo, una sorta di strumento di difesa del datore di lavoro, dal lavoro. è paradossale, ma sta ai padri difendere i figli. oggi i padri hanno ucciso i figli. i governi con atteggiamenti e decisioni vili, si adeguano al basso. colpiscono sempre a partire dalle fasce più deboli, usano meccanismi da questuanti (che notoriamente bussano alle porte della povera gente, perchè ai palazzi dei signori nemmeno si avvicinano)senza mai provare a rimuovere e ricostruire le mura marce dell’architettura dello stato.

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