A seguito del caso Sallusti ritorna la necessità di cambiare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa e, con essa, i reati di opinione. Strano è che le cause sui reati di opinione ricadono nella giustizia penale invece che in quella civile, e possono prevedere quindi tra le pene anche il carcere. «Si tratta di un retaggio del ventennio fascista e del codice Rocco – scrive Polis Blog -, ed è proprio su questo aspetto che probabilmente interverrà la politica. Quando viene commessa un diffamazione a mezzo stampa, è prevista la reclusione fino a sei anni: tuttavia se i giornalisti sono ancora a piede libero, il motivo è che la prassi è di infliggere solo una pena pecuniaria e di sfruttare le attenuanti generiche. Però questo è a discrezione del magistrato, e il giudice del caso Sallusti ha deciso, piuttosto irritualmente, per il carcere e non per la multa».
La domanda quindi è: perché al giornalista non sono state concesse le attenuanti generiche? Perché (le attenuanti) valgono per gli incensurati, ma, come spesso capita ai giornalisti, ci sono altre cause e condanne precedenti che incidono sulla fedina penale. Sallusti in verità è caso raro. Si ricordano di simili Lino Jannuzzi, che nel 1967 venne condannato a 16 mesi di carcere per le sue inchieste sul golpe del generale De Lorenzo e Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo e Peppone. Tuttavia l’accaduto ha fatto rumore e non per caso. La riflessione che andrebbe aperta seriamente, e che sarebbe di grande attualità, è una. Qual è il confine tra critica e diffamazione, tra opinione e faziosità? Chi fa il giornalista ha il dovere di ‘dire la verità’ dei fatti, verità (provata, si spera) che potrebbe anche risultare scomoda. Si aggiunga a questo poi il diritto di critica. Quale tutela allora viene garantita ai giornalisti? A quando una nuova legge (anti-bavaglio)?