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    Vicinanza e favoritismi, ma anche pressioni: ecco “come la mafia condizionava”

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    La sentenza con cui il TAR Lazio ha sancito la legittimità dello scioglimento del Comune di Cerignola per infiltrazioni mafiose non si è limitata a sposare le conclusioni tratte dalla Commissione di accesso e del Ministero dell’Interno, ma ha fornito anche una lettura autorevole delle dinamiche di condizionamento che si sono verificate negli ultimi anni all’interno di Palazzo di Città. Questa nuova interpretazione, per quanto arrivi a più di un anno di distanza dal sollevamento di Metta & co dai propri incarichi, fornisce una prospettiva più ampia sulle questioni alla base dello scioglimento, in quanto i giudici del tribunale romano, oltre che alle relazioni commissariali, prefettizie e ministeriali, hanno conosciuto anche la versione dei fatti contenuta nella difesa dell’ex-Sindaco, che ha sì ampliato le prospettive ma non ha ribaltato le sorti del giudizio amministrativo.

    Alla luce di ciò, è interessante quindi la valutazione fornita dal TAR proprio sulle dinamiche che stanno alla base del condizionamento mafioso. Se da un lato infatti viene confermato il favor dell’amministrazione nei confronti di alcuni soggetti, nella sentenza si rileva come non siano mancate anche delle vere e proprie pressioni intimidatorie da parte della criminalità nei confronti di Palazzo di Città. Sotto quest’ultimo aspetto, vengono richiamati a titolo esemplificativo l’attentato esplosivo ai danni del chiosco situato nella Villa comunale nel dicembre 2017 avvenuto «nel momento in cui veniva emessa l’interdittiva antimafia in relazione alla società affidataria del servizio di manutenzione della Villa comunale» e «la presenza, in occasione della riunione del Consiglio Comunale del 30 luglio 2018, di un folto numero di pluripregiudicati che, come ha scritto la Commissione, avevano verosimilmente il compito di esercitare pressione sull’organo comunale per impedirgli di approvare un consistente aumento della TARI: nella occasione, fra l’altro, il ricorrente (Metta, ndr) ha pubblicamente dichiarato di essere destinatario di minacce».

    E ancora: «la penetrazione della criminalità organizzata in vari settori di attività del Comune […] è ragionevolmente conseguente a fenomeni di condizionamento degli organi amministrativi o dell’apparato burocratico, condizionamento che magari si è tradotto solo in atti intimidatori, senza una condivisione di obiettivi e di valori da parte dei membri dell’Amministrazione comunale, ma che sono pur sempre rilevanti ai fini di determinare lo scioglimento ai sensi dell’art. 143 TUEL». Di «condivisione dei valori» parlava invece la relazione prefettizia che portò allo scioglimento del Comune, riferendosi però alle frequentazioni dell’allora Sindaco con alcuni esponenti della criminalità, definiti «rapporti elettivi». La sentenza parla anche di queste condotte, la cui «valutazione negativa che ne ha fatto la Commissione, che li ha considerati indicativi di una certa “vicinanza” del ricorrente agli ambienti della criminalità organizzata, non può essere considerata manifestamente illogica o frutto di travisamento, dal momento che si trattava di situazioni alle quali il ricorrente, volendo, avrebbe potuto facilmente sottrarsi».

    Se questi elementi ‘alleggeriscono’ per lo meno in parte la posizione dell’ex-Amministrazione, non si può però negare il vantaggio che nei fatti la criminalità traeva dall’azione amministrativa e il danno alla collettività. Si legge sempre nella sentenza che «il ricorrente, comunque, risulta aver tenuto comportamenti che sembrano ispirati solo dall’intento di assecondare determinati interessi, facenti capo alle locali famiglie mafiose o a pregiudicati locali». Peraltro, la finalità stessa della norma che disciplina lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose (art. 143 TUEL) non è reprimere le condotte degli amministratori (competenza dell’autorità giudiziaria penale che svolge considerazioni separate) ma porre un argine o rimuovere l’ingerenza mafiosa sull’ente a prescindere dalla natura delle condotte, che possono essere sia ‘attive’ che ‘passive’. Ciò giustifica l’intervento dello Stato anche quando non si ravvisa una conclamata complicità delle Amministrazioni nel perseguimento di scopi illeciti ma un loro assoggettamento alla criminalità.

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