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    La “Controra” di Marcello Colopi, un incontro (lungo vent’anni) con le vite al limite

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    Storie lunghe vent’anni. Storie di droga, criminalità ed emarginazione. Storie di chi è rimasto prigioniero della propria vita, di chi è riuscito ad evadere. Storie di chi, invece, non ha fatto più ritorno. In “Controra” (edito da Nicorelli) il dott. Marcello Colopi, sociologo cerignolano, da anni impegnato in progetti di recupero ed inclusione di ragazzi coinvolti in attività criminose, racconta proprio questo, percorsi esistenziali difficili di giovani cerignolani diventati adulti dopo aver affrontato gli anni più complessi della loro vita ai confini della nostra comunità. A margine della presentazione del libro, tenutasi sabato 3 ottobre presso la Parrocchia “San Domenico”, l’autore ha parlato ai nostri microfoni di questo ultimo suo lavoro, e dello spaccato di realtà che rappresenta.

    Già vent’anni fa in un altro libro, “La dove spunta il sole” avevi raccontato queste storie al limite. Come le hai ritrovate riprendendo il filo della narrazione?

    «In quell’opera raccontavo di tredici ragazzi che all’epoca avevano circa 18 anni. Vent’anni dopo ho incontrato dieci di questi, ormai, uomini e mi sono fatto raccontare da loro cosa è accaduto nel mentre. Tre hanno trascorso gran parte di quegli anni in carcere, altri tre hanno vissuto un’esistenza da spacciatori e tossicodipendenti, uno si è ‘fatto un nome’ nella criminalità organizzata e mi ha raccontato le dinamiche della mala cerignolana viste dall’interno, mentre altri tre ancora sono usciti dal circuito criminale e adesso conducono ‘una vita normale’».

    “Controra” non è solo il titolo del libro, ma anche il luogo spaziale ma soprattutto temporale in cui ha preso vita…

    «Per una strana coincidenza ho incontrato questi ragazzi e ascoltato le loro storie l’estate dell’anno scorso, sempre a quell’orario del primo pomeriggio. Un momento strano della giornata, durante il quale non esce nessuno se non proprio quelle persone che vivono una vita borderline».

    Qual è il profilo della persona che finisce nella rete della criminalità? E perché vi ci cade?

    «Nel libro racconto di ragazzi che hanno vissuto un apprendimento sociale del delinquere, per via della detenzione, loro e dei propri genitori, e a causa dell’emarginazione. Tuttavia dobbiamo riconoscere che non esiste l’assioma ‘criminalità uguale povertà’ perché in tanti vivono un’economia della sopravvivenza ma non delinquono e, al contrario, alcuni profili criminali importanti sono figli della piccola e media borghesia di Cerignola. Chi intraprende una carriera criminale, lo fa per guadagnare tanto e subito. Quel mondo soddisfa apparentemente questo bisogno di denaro. Necessità molto forte di questi tempi, non tanto perché ci siano delle difficoltà economiche, ma perché possedere ricchezze è un valore fondante della nostra società».

    Chi ce l’ha fatta come è riuscito a venirne fuori?

    «Nelle vite di queste persone c’è un punto di rottura. L’incontro con una ragazza, l’aiuto di una suora, il suicidio di un compagno di cella, episodi molto forti che fanno sorgere in loro delle domande. Quando ci si pone degli interrogativi cambia la prospettiva sulla vita. Chi va incontro a questi ragazzi e cerca di tirarli fuori da un mondo marcio deve fare in modo che scatti dentro di loro qualcosa che li porti a mettere in discussione la loro esistenza».