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    “Io odio John Updike”, di Giordano Tedoldi domani nella Sala Mascagni del Mercadante

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    Quali racconti ci sono dietro i racconti di Io odio John Updike? L’idea di scrivere dal foglio bianco (e di conseguenza anche l’idea del cosiddetto blocco da pagina bianca) credo di averla persa piuttosto presto. È un’idea che mi viene se disegno (mi piace disegnare e mi piaceva dipingere), perché non credo di saper disegnare né dipingere. Ma credo di saper scrivere perché non scrivo mai a partire da un foglio o una pagina bianca. I racconti di Io odio John Updike sono stati scritti sopra altri racconti. Mi pare, se i ricordi liceali non mi tradiscono, che si possa dire che li ho scritti come raschiando un palinsesto e riscrivendoci sopra. Quali racconti ho raschiato? Quali c’erano sotto? Dovrei saperlo. Se non io, chi. C’erano credo due antologie Garzanti di racconti, quelli di Poe e soprattutto quelli di Nathaniel Hawthorne, nell’edizione nella foto. Più dei racconti di Kafka, che amo ovviamente, ma forse dovrei dire più esattamente ammiro con reverenza, c’erano le incomprensibili allegorie morali di Hawthorne. Dico incomprensibili perché, quando ho letto Hawthorne per la prima volta, credo intorno ai dodici o tredici anni, non solo le sue allegorie mi erano incomprensibili, ma le allegorie in generale, per non parlare delle allegorie morali.

    C’era un racconto che mi mise a dura prova fin dal titolo, perché vi appariva la parola “carbonchio”, e dal mio dizionario tascabile Garzanti (senza saperlo, da adolescente ero un feticista garzantiano, che è stata la mia Adelphi puberale) risultava che carbonchio potesse significare una varietà di cose abbastanza diverse; vado a memoria: un grosso rubino, oppure una grossa bolla o tumefazione dovuta a una qualche malattia mi pare dipendente da carente alimentazione. E, leggendo il racconto di Hawthorne con “carbonchio” nel titolo, mi era impossibile capire se intendesse il rubino o la tumefazione, ogni volta che lo nominava. Mi è impossibile capirlo, spero, anche se lo rileggo oggi. È questo il tipo di ambiguità, di indecifrabilità e di elusività – interamente dovuta alla mia ignoranza e insufficienza intellettuale del tempo, ma poi sedimentata – che, sono sicuro, ho voluto riproporre quando, circa vent’anni dopo, mi sono messo a scrivere i miei racconti, poi confluiti in Io odio John Updike. Nel frattempo non avevo più fatto letture così indecifrabili, e che mi avevano smarrito, quanto le allegorie morali di Hawthorne – che sapevo fossero “allegorie morali” perché lo si diceva nell’introduzione – ma ho sempre desiderato scrivere anche le mie allegorie morali, cosi efficaci, che non si capiva (perché non si poteva) che lo fossero. Da questa sovrapposizione, tra i lucidi sogni di paura e sgomento e amore del presente in cui li scrivevo, e il passato, il ricordo della lettura dei Racconti di Nathaniel Hawthorne, quella foschia in cui si muovevano figure di americani selvatici, affondati in paludi morali, castigati con strumenti di tortura molto meno materiali degli stivaletti spagnoli, più gentili, e più tremendi, ho dato spessore e sostanza ai miei racconti, cioè le mie allegorie morali.

    Perciò, per quello che vale l’opinione di un autore su se stesso, dico che dietro i racconti di Io odio John Updike ci sono soprattutto i racconti, pubblicati nell’edizione Garzanti, di Nathaniel Hawthorne. Da ciò credo dipenda un certo effetto di “palinsesto” che si ha alla lettura di Io odio John Updike, come se ci fosse una simultaneità di tempi diversi, simultaneità che stava nella foschia all’orizzonte della camera da letto in via Andrea Ferrara 12, in cui leggevo Hawthorne.

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