Esistono due elementi che “incidono” sull’elettore medio del nostro tempo, questioni che, al di là delle proprie e rispettabili ragioni, rischiano tante volte di non esser comprese. La prima è la proiezione costante nel futuro: «faremo», «abbiamo ottenuto questo finanziamento e faremo…», «entro il prossimo anno…», «gli effetti di questo importante intervento si vedranno…». Seppure la politica ha una sua progettualità non a scadenza troppo ravvicinata l’affanno nell’annunciare ha prodotto “comunicazioni” quasi mai al presente. In troppi casi, prima di «finalmente oggi inauguriamo…» lo storytelling di avvicinamento all’obiettivo risulta corposo. Seconda questione è l’abituale regime di straordinarietà, che spesso la politica si ritrova a (in)seguire. Lo si potrebbe definire il cibo del malcontento, il nutrimento di una disaffezione, poiché diventa la ragione del «non cambierà mai niente», «per anni non hanno fatto niente e sarà sempre così», «non ci hanno pensato prima perché erano impegnati a sistemare le loro cose».
Vero è che la madre dei cretini è sempre in stato interessante e, dunque, la faciloneria verbale non è cosa rara, ma il punto è un altro, apparentemente sconosciuto un po’ da tutti. E inspiegabilmente. Possiamo parlare di Politica del Necessario, quell’arte nobile che i cittadini si aspettano ad ogni livello: laddove il necessario coincide con l’immediatamente tangibile, quel che si vede, quel che si percepisce direttamente. Certo, può apparire molto riduttiva una simile visione, ma non è così. Lavorare a cose necessarie richiede conoscenza, compartecipazione, empatia: non qualcosa per tutti. Seppure esiste un lavoro amministrativo importante di preparazione alle cose immediatamente tangibili, queste ultime non possono aspettare il prossimo governo o le prossime amministrazioni. Quando ciò accade (negli ultimi trent’anni con grande frequenza) il voto diventa sempre l’espressione di un giudizio su chi c’era prima, più che fiducia per chi andrà a gestire la cosa pubblica.
il valutar si fatta specie di cariatidi politiche insediate e reinsediate unicamente per proprio tornaconto sventolando bandiere di rdc o lavoro per tutti riporta alla mente Cetto Laqualunque, sta di fatto che il giudicare la politica passata che ci ha portato e indotto al pensare che tutto ci fosse dovuto è aberrante. gli amici degli amici insegnano. la politica del no e i danni nella guerra tra stato , regioni, province e comuni alla fine ricade solo sulle spalle del popolo che dalla politica, a giusta ragione, prende quello che più gli fa comodo. oggi un nuovo governo si è insediato e già si pensa e si lavora a come poterlo fottere (sic), e nella P.A. a come mettere i bastoni tra le ruote al popolo dando sempre la colpa a Roma e ci si scorda che per una TAC occorrono mesi e mesi, le rotonde aumentano le piazzette dilagano mentre le attività chiudono. troppo facile parlare del necessario.