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    Vittorio Pozzo, molto più di un allenatore nel racconto del giornalista foggiano Dario Ronzulli

    La figura poliedrica del commissario tecnico che ha fatto grande la Nazionale italiana negli anni ’30 del secolo scorso: uno studioso, un pioniere, il capostipite del nostro calcio (con lui esordisce in azzurro anche Riccardo Carapellese), nell’ultimo libro del giornalista sportivo

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    A 52 anni Vittorio Pozzo diventa l’allenatore più vincente di chiunque altro sulla panchina di una Nazionale di calcio. Alla guida degli Azzurri conquista due Coppe Internazionali (competizione antesignana dei Campionati Europei), nel 1930 e nel 1935, due Campionati del Mondo, nel 1934 e nel 1938 (è tuttora l’unico commissario tecnico ad aver trionfato in due edizioni, per di più consecutive), e un oro olimpico, ad oggi l’unico della nostra storia, a Berlino nel 1936. Basterebbe questo a farne un personaggio meritevole di un racconto approfondito. Ma Pozzo è molto più di un allenatore. È un uomo assetato di conoscenza, che parla bene diverse lingue e che per essere nato a fine ‘800 viaggia moltissimo. Uno di questi itinerari lo conduce in giovane età in Inghilterra, dove ha la possibilità di assistere al torneo di calcio delle Olimpiadi di Londra del 1908. Resta affascinato nel vedere dal vivo partite che si giocano in stadi gremiti da 70mila spettatori. È l’evento in cui comprende che quello sport sarà la sua vita, tanto da renderlo pioniere di un movimento che in quegli anni in Italia è ancora assai indietro rispetto a quanto accade oltremanica. Sarà lui ad istituire il ritiro, un’innovazione rivoluzionaria per l’epoca e alla cui base c’è l’esigenza di formare un gruppo ancor prima di una squadra. Con il rigore morale e la disciplina spartana, figli della provante esperienza da tenente degli Alpini durante la Prima Guerra Mondiale, Vittorio Pozzo crea uno spirito indissolubile che tiene assieme personalità diverse, da Giuseppe Meazza ad Attilio Ferraris, da Luis Monti a Raimundo Orsi.

    A narrare e ricostruire la storia di una figura poliedrica, grazie alla quale ci sarà un prima e un dopo nella storia di questo sport nel nostro Paese, è stato Dario Ronzulli, autore del libro di recente uscita «Vittorio Pozzo-Il padre del calcio italiano» (Minerva Edizioni). Giornalista foggiano di nascita e bolognese d’adozione, collabora con diverse testate sportive, fra cui Tuttosport e Fantacalcio.it. È attualmente speaker di Radio Nettuno Bologna Uno, come conduttore del morning show e radiocronista della Virtus Bologna, ed è inoltre cofondatore del podcast sportivo Gli Elefanti. Di questa sua ultima fatica letteraria, alle cui spalle c’è un notevole e certosino lavoro di ricerca, lanotiziaweb.it ne ha voluto sapere di più dallo stesso autore, che ringraziamo per la sempre cortese disponibilità.

    Dario, l’idea del libro prende le mosse da un inspiegabile oblio in cui è finita la figura di Vittorio Pozzo dopo la sua scomparsa.

    «Non credo che in altri Paesi un due volte campione del mondo nel calcio sarebbe stato così messo da parte nella memoria collettiva. Mi sono fatto l’idea che Pozzo abbia pagato sia l’accostamento al fascismo, che però come racconto appare quantomeno forzato, sia la mancanza di immagini delle partite della sua Nazionale, che ha complicato il processo di trasmissione della memoria. Spero che il mio lavoro porti ad una rivalutazione della sua figura, non solo di allenatore e amante del calcio».

    Una passione, quella per il calcio, che nutre sin dalla giovanissima età. Sono anni di aneddoti curiosi, uno dei quali riguarda un campo da calcio con un albero al centro.

    «È il tempo della fantasia al potere, in cui le regole ci sono ma non vengono seguite pedissequamente. In Svizzera, dove il giovane Pozzo completa gli studi, si gioca dove si può: ad esempio la sua squadra va a giocare una partita in un campo all’interno di un collegio. Al centro del campo c’è un ciliegio che non si può togliere perché di proprietà, appunto, del collegio. È divertente immaginare come i giocatori si siano dovuti ingegnare per evitare l’albero oltre agli avversari!».

    Pozzo era un personaggio poliedrico, allenatore ed anche giornalista. Come riusciva a far conciliare entrambe le professioni?

    «Oggi per noi sarebbe inconcepibile che Roberto Mancini scriva il commento alla partita dell’Italia per un giornale. Pozzo lo faceva sia perché era una fonte di sostentamento economico – non ha mai preso una lira per il suo ruolo di commissario unico – sia perché l’idea del conflitto d’interessi non c’era. Ad esempio per i Giochi di Berlino del ’36 gli articoli per ‘La Stampa’ sulla scherma li scriveva il presidente della Federscherma, il leggendario Nedo Nadi. E proprio per ‘La Stampa’ Pozzo ha scritto per una vita: la sua abilità risiedeva soprattutto nel non farsi scrupoli se c’era da criticare la prestazione dei suoi ragazzi, pur usando raramente frasi dirette ad un singolo giocatore».

    La sua Nazionale è stata spesso, e superficialmente, indicata come espressione del regime fascista. In realtà non è esattamente così.

    «Come detto, Pozzo non ha mai ricevuto un compenso per sua scelta. Lo pose come conditio sine qua non a Leandro Arpinati, il presidente della Federcalcio che lo ha voluto allenatore nel 1929. Pozzo si impose spinto dall’idea di essere il più indipendente possibile dai capricci del regime e dei gerarchi. Non poteva certo impedire che la sua Italia venisse usata come arma di propaganda, ma poteva essere l’unico a gestire convocazioni e formazioni. E in effetti andò così: convocò chi voleva lui, perfino un antifascista dichiarato come Bruno Neri. Visti i risultati era impossibile per i gerarchi anche solo perorare la causa di un giocatore della propria squadra».

    Italia-Germania 4-3 dei Mondiali di Messico del 1970 è individuata come la prima partita della storia della Nazionale capace di attrarre l’attenzione di un intero Paese. Tu però ne citi un’altra ad aver riscosso un entusiasmo abbastanza simile, e bisogna andare indietro di altri quarant’anni.

    «Ungheria-Italia, ultima gara della Coppa Internazionale del 1930. È il torneo antesignano dell’Europeo, gli azzurri sono a Budapest e se vincono conquistano il primo trofeo della propria storia. Finisce con un trionfale 0-5 il cui eco arriva presto in Italia con le edizioni della sera dei giornali; si accende un entusiasmo incontenibile, alla stazione di Milano almeno 25mila persone accolgono la Nazionale. È il primo bagno di folla per la maglia azzurra, il momento in cui il calcio mette la freccia e inizia il sorpasso al ciclismo come sport nazionale».

    Per i suoi giocatori Vittorio Pozzo non era soltanto un allenatore, bensì una figura di riferimento quasi paterna. A tal proposito, quanto lo ha segnato umanamente la tragedia del Grande Torino, che lui stesso ha contribuito a costruire ed ha più volte costituito lo zoccolo duro della sua Nazionale?

    «Ho scelto di partire dal riconoscimento delle salme che Pozzo è spinto a fare dal magistrato a Superga: non è stata una scelta casuale o semplicemente narrativa. Per i suoi ragazzi lui avrebbe fatto di tutto e perderne tanti tragicamente in un colpo solo è stato un colpo durissimo, che gli ha lasciato cicatrici profonde. Il suo articolo di saluto ai giocatori su ‘La Stampa’ credo sia uno dei pezzi più toccanti e profondi della storia del giornalismo italiano».

    Con Pozzo ha fatto il suo esordio in azzurro nel 1947 il “nostro” Riccardo Carapellese. Hai un aneddoto, una curiosità a riguardo?

    «Carapellese fu uno dei pochi talenti giovani a disposizione su cui Pozzo basò la ricostruzione del gruppo azzurro dopo la Seconda Guerra Mondiale. Aveva quella capacità di uscire dallo spartito che il Commissario Unico riteneva fondamentale in chi giocava sulle corsie esterne in attacco, soprattutto sulla sinistra. Carapellese fa il suo esordio in una giornataccia a Vienna, con l’Austria che domina 5-1 e se la sconfitta non è più rotonda è solo perché Riccardo si mette in proprio e segna il gol della bandiera. A Pozzo piaceva molto, tanto che Carapellese è uno dei pochissimi non granata a trovare spazio in azzurro negli anni del Grande Torino».

    In conclusione, in cosa il calcio italiano è profondamente cambiato da quei tempi ad oggi e in cosa, invece, è rimasto uguale (o quasi)?

    «Nel libro racconto tanti episodi che sembrano accaduti in questi giorni. Per esempio oggi il calcio italiano viene spesso criticato perché troppo legato al denaro mentre una volta non era così, c’era più romanticismo e via dicendo. Nella maniera più assoluta non è vero, il denaro ha sempre avuto un ruolo nelle scelte dei giocatori: Piola punta i piedi perché dalla Pro Vercelli vuole andare all’Inter, Rava viene messo fuori squadra nella Juve perché vuole un aumento, Valentino Mazzola accetta, salvo poi cambiare idea, l’offerta dell’Inter che gli dà più soldi rispetto al Torino. Contava talmente tanto che Pozzo fu tra i primi a proporre una regolamentazione dei contratti e del calciomercato. In una cosa però c’è molta differenza tra il calcio degli anni di Pozzo e quello contemporaneo, ovvero la presenza nella quotidianità che all’epoca era più diradata mentre oggi è certamente più invasiva».

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