Tutti quanti lo abbiamo portato sotto braccio nelle aule di scuola o dell’università; tutti quanti lo abbiamo sfogliato chissà quante centinaia di volte, alla ricerca del significato di qualche termine bizzarro che non avevamo mai sentito prima, o durante un compito in classe, per evitare di compiere qualche strafalcione da matita blu: è lo Zingarelli, il vocabolario della Lingua Italiana che, in questi giorni, compie cent’anni; un anniversario che può apparire insignificante se non si è filologi, editori…o cerignolani. Esattamente un secolo fa, nel dicembre 1917, venivano pubblicati dagli editori Bietti e Reggiani i primi fascicoli di un’opera che ha segnato non solo la storia della cultura e della Lingua Italiana, ma anche l’identità di una nazione.
Proprio nel momento in cui l’Italia, giovane nazione unificata da appena 56 anni, stava vivendo il dramma della Grande Guerra – a pochi mesi dalla disfatta di Caporetto e dalla Prima Battaglia del Piave – un cerignolano, un nostro conterraneo, il filologo e linguista Nicola Zingarelli, realizza il vocabolario della Lingua Italiana mandando – chissà quanto consciamente – un messaggio fortemente patriottico all’intera nazione: l’Italia c’è, ha una sua identità ed è custodita in queste pagine. Fu anche merito della casa editrice Zanichelli -che rilevò il vocabolario nel 1941, legandovi indissolubilmente il proprio nome – se un dizionario divenne un best seller al punto tale che, come accade per ogni grande opera che si rispetti, il nome dell’autore sia passato ad indicarlo per antonomasia. Circa 145.000 voci e più di 380.000 significati, un vero e proprio scrigno contenente la cultura e la storia del nostro paese che nell’arco di un secolo ha registrato tutti i mutamenti avvenuti nella lingua parlata: neologismi, vocaboli importanti dalle lingue straniere che mano a mano ha assunto la dimensione ufficiale proprio venendo accolta nel vocabolario.
“Mai non è apparsa tanto evidente la mutabilità delle lingue come nel tempo dallo scoppiar della guerra ai giorni presenti” scriveva nella prefazione della terza edizione – datata 1925 -il filologo cerignolano, che già allora aveva intuito come il patrimonio linguistico di un popolo non può cristallizzarsi e sarà sempre e comunque aperto alle novità con cui inevitabilmente viene in contatto. Il che non porta all’imbastardimento della lingua e della cultura, o alla sostituzione coatta di vocaboli e degli ideali in essi scritti; tuttalpiù ne accresce il tesoro aprendo ogni volta nuove visuali e nuovi orizzonti sul mondo. Una lezione di circa novant’anni fa che tuttavia può tornarci molto utile anche ai giorni nostri.